Obama ha finalmente capito l'Iran
di M. K. Bhadrakumar
I risultati delle elezioni parlamentari iraniane stanno generando a Teheran un clima politico favorevole all'avvio di dialoghi sulla questione nucleare. L'amministrazione statunitense lo percepisce. La grande domanda è se il presidente Barack Obama riuscirà a coinvolgere i due alleati-chiave degli Stati Uniti – Arabia Saudita e Israele – nella ricerca di una soluzione permanente all'attuale situazione di stallo.
Ma le interpretazioni fantasiose non mancano, di questi tempi. La politica iraniana suscita una grande curiosità, e durante il periodo elettorale si assiste a un tripudio di voci infondate. Quattro anni fa si disse che le Guardie della Rivoluzione Islamica stavano usurpando il potere politico trasformando il Paese in una dittatura militare. Il grande scoop di quest'anno (finora) è che il Leader Supremo, l'Ayatollah Ali Khamenei, intenderebbe esiliare politicamente il Presidente Mahmoud Ahmedinejad e che il Majlis sarebbe il loro campo di battaglia. Ci si dimentica di quando nel 2009 Khamenei respinse nettamente le istanze dei riformisti e protesse la presidenza di Ahmedinejad.
Di certo in Iran, come ovunque, la politica è una faccenda complessa. L'establishment religioso sciita è storicamente noto per la sua litigiosità. La politica di partito, così come viene intesa nelle liberal-democrazie occidentali, in Iran non esiste. Ma le fazioni, le cricche e i gruppi di interesse sono in continuo riallineamento, donando grande vivacità alla politica iraniana.
Le elezioni di venerdì non hanno fatto eccezione. Un ulteriore elemento d'interesse è il modo in cui il neo-eletto Majlis influenzerà la struttura di potere del paese – e quale impatto produrrà sulle decisioni politiche – in una congiuntura che vede l'Iran a un bivio sullo sfondo di cambiamenti regionali epocali.
In base agli esiti elettorali, la nuova composizione del Majlis potrà generare conseguenze positive per la sicurezza della regione. Le fazioni e le cricche che possono essere definite "conservatrici" – nel contesto iraniano – si sono unite nella coalizione "principalista" e hanno corso alle elezioni in un raggruppamento riconoscibile, riportando ottimi risultati.
I principalisti mettono insieme religiosi e laici in un "fronte unito". Ad accomunarli è la visione politica conservatrice in merito all'ideologia della rivoluzione iraniana e all'assoluta centralità del velayat-e faqih (il governo del giureconsulto).
Soluzione permanente
Il predominio dei principalisti nel Majlis renderà la struttura di potere più coesa di quanto lo sia mai stata negli ultimi quindici anni. Ma il ruolo fondamentale del leader supremo non è mai stato in discussione, ed è un'istituzione che non aveva bisogno di essere rafforzata dal Majlis.
Non si deve dimenticare neanche che l'autorità del presidente e l'efficacia del suo esecutivo sono sempre dipese dalla sua capacità di operare all'interno del sistema.
I principalisti consolidano in misura significativa la struttura di potere. Per quanto riguarda gli interlocutori dell'Iran, essi probabilmente si troveranno ad ascoltare una voce più unanime. Dunque quello che interessa alla comunità internazionale è che Teheran sta mettendo la testa a posto in vista del tavolo negoziale sulla questione nucleare.
L'Occidente tende a squalificare le elezioni iraniane, agendo in base a un riflesso condizionato. Ma Obama percepisce come un'opportunità lo spostamento di potere a Teheran e il consolidamento dell'autorità.
I risultati delle elezioni parlamentari iraniane stanno generando a Teheran un clima politico favorevole all'avvio di dialoghi sulla questione nucleare. L'amministrazione statunitense lo percepisce. La grande domanda è se il presidente Barack Obama riuscirà a coinvolgere i due alleati-chiave degli Stati Uniti – Arabia Saudita e Israele – nella ricerca di una soluzione permanente all'attuale situazione di stallo.
Ma le interpretazioni fantasiose non mancano, di questi tempi. La politica iraniana suscita una grande curiosità, e durante il periodo elettorale si assiste a un tripudio di voci infondate. Quattro anni fa si disse che le Guardie della Rivoluzione Islamica stavano usurpando il potere politico trasformando il Paese in una dittatura militare. Il grande scoop di quest'anno (finora) è che il Leader Supremo, l'Ayatollah Ali Khamenei, intenderebbe esiliare politicamente il Presidente Mahmoud Ahmedinejad e che il Majlis sarebbe il loro campo di battaglia. Ci si dimentica di quando nel 2009 Khamenei respinse nettamente le istanze dei riformisti e protesse la presidenza di Ahmedinejad.
Di certo in Iran, come ovunque, la politica è una faccenda complessa. L'establishment religioso sciita è storicamente noto per la sua litigiosità. La politica di partito, così come viene intesa nelle liberal-democrazie occidentali, in Iran non esiste. Ma le fazioni, le cricche e i gruppi di interesse sono in continuo riallineamento, donando grande vivacità alla politica iraniana.
Le elezioni di venerdì non hanno fatto eccezione. Un ulteriore elemento d'interesse è il modo in cui il neo-eletto Majlis influenzerà la struttura di potere del paese – e quale impatto produrrà sulle decisioni politiche – in una congiuntura che vede l'Iran a un bivio sullo sfondo di cambiamenti regionali epocali.
In base agli esiti elettorali, la nuova composizione del Majlis potrà generare conseguenze positive per la sicurezza della regione. Le fazioni e le cricche che possono essere definite "conservatrici" – nel contesto iraniano – si sono unite nella coalizione "principalista" e hanno corso alle elezioni in un raggruppamento riconoscibile, riportando ottimi risultati.
I principalisti mettono insieme religiosi e laici in un "fronte unito". Ad accomunarli è la visione politica conservatrice in merito all'ideologia della rivoluzione iraniana e all'assoluta centralità del velayat-e faqih (il governo del giureconsulto).
Soluzione permanente
Il predominio dei principalisti nel Majlis renderà la struttura di potere più coesa di quanto lo sia mai stata negli ultimi quindici anni. Ma il ruolo fondamentale del leader supremo non è mai stato in discussione, ed è un'istituzione che non aveva bisogno di essere rafforzata dal Majlis.
Non si deve dimenticare neanche che l'autorità del presidente e l'efficacia del suo esecutivo sono sempre dipese dalla sua capacità di operare all'interno del sistema.
I principalisti consolidano in misura significativa la struttura di potere. Per quanto riguarda gli interlocutori dell'Iran, essi probabilmente si troveranno ad ascoltare una voce più unanime. Dunque quello che interessa alla comunità internazionale è che Teheran sta mettendo la testa a posto in vista del tavolo negoziale sulla questione nucleare.
L'Occidente tende a squalificare le elezioni iraniane, agendo in base a un riflesso condizionato. Ma Obama percepisce come un'opportunità lo spostamento di potere a Teheran e il consolidamento dell'autorità.
A Obama non è sfuggito che prima delle elezioni parlamentari il leader supremo iraniano ha fatto una dichiarazione d'importanza capitale sulla questione nucleare. Parlando a una platea di scienziati nucleari iraniani, Khamenei ha detto:
Lo scopo del clamore sollevato [dall'Occidente] è quello di fermarci. Sanno che non vogliamo le armi nucleari. Lo sanno già. Ne sono certo: nei Paesi che si oppongono a noi, le organizzazioni incaricate di prendere le decisioni sono pienamente consapevoli del fatto che non vogliamo le armi nucleari.Così, dopo aver meditato sulla dichiarazione di Khamenei per due buone settimane, Obama ha deciso di prenderne atto e di farne un punto saliente dell'intervista concessa la settimana scorsa a Jeffrey Goldberg di The Atlantic Monthly.
Le armi nucleari non ci servono a niente. Inoltre, da una prospettiva ideologica e dal punto di vista del [velayat-e] faqih, consideriamo illecito lo sviluppo delle armi nucleari. Consideriamo l'uso di tali armi un grave peccato. Crediamo anche che possedere tali armi sia inutile e pericoloso, e non ne perseguiremo mai lo sviluppo. Loro lo sanno, ma esasperano la questione per fermarci.
Obama ha sottolineato la necessità di una soluzione "permanente" – "anziché temporanea" – alla questione nucleare iraniana. Ha poi osservato che una soluzione permanente sarebbe possibile solo se l'Iran badasse al proprio interesse, cioè desse prova di razionalità. In un uso brillante della doppia negazione che farebbe invidia a un oratore persiano, Obama ha aggiunto:
[Gli iraniani] sono sensibili alle opinioni della popolazione e sono preoccupati dall'isolamento che stanno vivendo [...] Sono capaci di prendere decisioni mirate a evitare esiti negativi dal loro punto di vista. Dunque, se vengono loro offerte delle alternative [...] non c'è alcuna garanzia che non possano fare una scelta migliore.Obama ha riconosciuto che gli Stati Uniti dovranno giungere a un qualche tipo di accordo, e che la cosa è fattibile perché reputa che i leader iraniani siano interlocutori fondamentalmente razionali. D'altro canto, Obama ritiene che un attacco militare contro l'Itan sarebbe un'inutile "diversione".
Perché, ha detto, "l'Iran non ha ancora un'arma nucleare e non è ancora nella situazione di ottenere un'arma nucleare senza che noi [Washington] veniamo a conoscenza di questo tentativo con largo anticipo".
"Israele può contare su di noi"
E così c'è finalmente un presidente americano che ha capito l'Iran. Il problemi di Obama adesso sono due. Uno è l'Arabia Saudita, la cui priorità regionale al momento non consiste nei colloqui USA-Iran ma nell'imporre un rovesciamento del regime di Damasco per mezzo di un intervento occidentale, con la speranza di colpire al cuore il prestigio dell'Iran nella regione e indebolire il potere sciita (anche nella stessa Arabia Saudita).
Il drammatico gesto compiuto da ministro degli Esteri saudita Saud al-Faisal, che ha lasciato il vertice degli "Amici della Siria" svoltosi a Tunisi la scorsa settimana, è stato rivelatore. Detto questo, però, i sauditi capiscono molto bene che probabilmente Khamenei ha ottenuto che la faziosità e frammentarietà che negli ultimi anni hanno gettato nel caos la politica e i negoziatori iraniani – anche sulla questione nucleare – non si ripetano più.
Si può ipotizzare che una maggiore coesione della struttura di potere a Teheran vada bene anche ai sauditi. Il punto è che nei prossimi tempi Teheran dovrà prendere decisioni difficili, ed essere abbastanza forte e tenace da mostrarsi flessibile.
Ma il problema principale di Obama è un altro. Deve vedersela con il governo israeliano guidato dal Primo ministro Benjamin Netanyahu. Netanyahu per Obama è un osso duro, anche se la montatura dei media secondo cui sarebbe l'arbitro della rielezione di Obama è appunto un'esagerazione.
Il "problema Netanyahu" consiste nel fatto che negli Stati Uniti il 2012 è anno di elezioni, e, come ha ironicamente suggerito Obama, "C'è una serie di attori politici [negli Stati Uniti] che vogliono vedere se possono creare discordia non tra gli Stati Uniti e Israele, ma tra Barack Obama e un elettorato ebraico-americano che tradizionalmente è un energico sostenitore della sua candidatura."
L'istinto politico di Obama ha ragione. Il fatto è che nel 2008 Obama ha ottenuto il 78% dei voti ebraici, e non solo per la sua posizione su Israele. Inoltre la maggioranza dell'opinione pubblica israeliana si dice contraria a qualsiasi forma di conflitto con l'Iran.
È qui che è importante il messaggio lanciato da Obama durante l'intervista con Goldberg: nell'energica dichiarazione che "Israele più contare sugli Stati Uniti" e nella posizione coerentemente pro-Israele tenuta durante tutta l'intervista.
Non sorprende che Obama abbia anche utilizzato il forum dell'AIPAC (American Israel Public Affairs Committee) di domenica per ribadire la sua solidarietà nei confronti di Israele. Ha parlato di "mio impegno", non di impegno degli Stati Uniti. "Nei momenti critici Israele può contare su di me", ha detto.
Ma poi è tornato alla questione principale: l'attuale strategia delle sanzioni di Washington contro l'Iran sta funzionando e lui ha ancora fiducia nella diplomazia. "Credo fermamente che la diplomazia, sostenuta dalle pressioni, abbia una possibilità di successo."
Alla fine Obama non ha lasciato dubbi sul senso del suo messaggio al pubblico dell'AIPAC: "Si parla troppo incautamente di guerra."
Originale: Obama gets Iran right, finally, 5 marzo 2012.